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Paolina

Vi ricordate l’amico che ho prima costretto e poi esonerato dal leggere L’idiota?!

Bene, ora toccava a lui scegliere il libro da leggere insieme ed ha scelto Paolina di Marco Lodoli.

Ci ha messo un po’ (io nel frattempo ho letto altri 4 libri), la scelta è stata ponderata, e comunque: individuato e letto.

Il libro si compone di sole 100 pagine il che, per quanto mi riguarda, lo classifica più tra i racconti (magari lunghi) che tra i romanzi.

Dunque, sicuramente la sua scelta è stata più azzeccata dalla mia, sicuramente ci ha pensato di più (ma lui legge la terza di copertina e magari gli è più facile!), sicuramente la prossima volta dovrò applicarmi meglio, sicuramente però non ho letto un capolavoro.

Paolina è una ragazzina di 15 anni che scopre di essere incinta e nella giornata in cui deve decidere cosa fare di questo bimbo attraversa varie parti di Roma nord, a piedi, compiendo una serie di incontri quanto meno surreali: una zingara, un professore, 3 ragazzi probabili padri, 3 cartomanti e poi varie ed eventuali.

Ragazzi, il libro è di una tristezza rara. Questa Paolina ti prende allo stomaco, ti fa tenerezza e poi ti fa incazzare e poi pensi: “ma che sto leggendo?!” e poi ti riappassioni e poi la prenderesti a pizze e poi la accarezzeresti. In 100 pagine non è da tutti suscitare queste emozioni quindi magari Lodoli è stato anche bravo ma c’è qualcosa che mi è sfuggita forse.

Paolina è sola sola, troppo sola per una ragazzina di 15 anni che non va a scuola, fa sesso 3 volte in vita sua e resta incinta. Nel favoloso mondo di Kiukylandia, che è un po’ parente di quello di Amelie, Paolina non può esistere così sola, a 15 anni. Ed è vero che ha solo una mamma ed è figlia di un errore (o una violenza non sappiamo bene) però troppo.

È talmente tutto così assurdo che ad un certo punto diventa normale.

È normale che non vada a scuola, che passi la giornata girovagando, che nessuno la cerchi; è normale che incontri una zingara e riveli ai 3 possibili padri di aspettare un bambino; è normale che venga trattata male da tutti; è normale secondo voi?

Io non so, soprattutto non so se mi piacciono queste storie assurde che stanno a metà tra la realtà e la fantasia.

Comunque il libro è scritto bene, lo leggi volentieri, è tanto breve che io un’altra cinquantina di pagine magari le avrei lette pure per capire da dove viene e dove va Paolina.

Certo una sfiga, povera figlia!

Io dico che dobbiamo ritentare la lettura condivisa perché pure questa, sebbene meglio della prima, non mi ha convinta.

Andiamo avanti!

Colpevole per nascita

Carissimi, io non ho letto un libro ma una lunga poesia.

Ho appena finito di leggere una lunga poesia bellissima.

Perché quando un libro è bello lo capisci dalle prima 10 pagine ed io l’ho capito subito ed è per questo che, dopo averlo comprato appena uscito (il 20 ottobre) ed averlo iniziato, ho cominciato a rallentare e ci ho messo molto di più di quanto una lettura così bella richieda.

Che libro è?

Orfani bianchi di Antonio Manzini.

A parte il titolo che, già di per sé, ho trovato bellissimo ma il contenuto ti affascina già dalla premessa.

Per la prima volta Manzini ci racconta di una donna  (e che donna!): Mirta, una moldava.

Dice: ma la è più russa che rumena? No, sono Moldava, che è un’altra cosa.

Mirta è una disgraziata, ma di quelle vere. Ha lasciato il figlio in Moldavia per cercare fortuna in Italia ed offrirgli un futuro migliore.

Io non vi aggiungo altro, non vi voglio dire di lei e dei suoi mille lavori; non vi voglio dire della sua famiglia lasciata in campagna; non vi voglio raccontare del figlio disperato; non vi voglio dire della dolcezza di Pavel e della stronzaggine della sig.ra Valentina; non vi voglio raccontare della speranza; non vi voglio raccontare della disperazione; non vi voglio raccontare della “vita vera” a cui ambisce il filippino Filippo; non vi voglio dire delle scale che Mirta deve pulire e della sig.ra Eleonora che vuole morire.

Non vi voglio dire di nulla di tutto questo perché voi dovete leggerlo perché un libro così non può rimanere sugli scaffali, deve stare dentro casa; un libro così non ti lascia quando lo posi sul comodino, ti accompagna, ti scava un solco in mezzo al cuore; un libro così ti aiuta a ringraziare Dio (per chi ci crede) della tua fortuna; una copia di un libro così andrebbe regalata a tutti gli abitanti di Gorino per farli sentire delle nullità, quali sono; un libro così va letto e basta.

Buona lettura a voi e un infinito grazie ad Antonio Manzini per l’emozione, i brividi, le lacrime che mi ha regalato. Grazie.

PS: Anto’, io abito lì vicino ma un palazzo di undici piani a Conca d’oro non me lo ricordo proprio 🙂 .

 

Napul è 

Tutto d’un fiato si legge questo libro sebbene diverse siano le espressioni in napoletano e a volte si fa fatica a capirle ma il napoletano è divertente e così la scrittura. Oddio, divertente non è la parola adatta per questo libro che è drammatico, parecchio, ma non si può dire che non sia anche pieno di speranza.

Parte dalla fine e lo si capisce al secondo capitolo che torna indietro di una settimana.

La storia è quella di Gennaro, detto Genny (che chi vede Gomorra come me ha un tuffo al cuore), un ragazzino con una mamma malata; ma è anche la storia della poliziotta Irene e della di lei figlia Tania.

Genny è un bravo ragazzo, coinvolto in una brutta storia; Tania è una brava ragazza, ma sfortunata; Irene è una madre disperata.

La vita dei tre si incrocia, si incastra.

È ben scritto, piacevole, triste, commovente, divertente.

È da leggere e quando inizi lo devi finire. Subito. 

Devi sapere se prevale la disperazione o la lucidità; la vita o la morte. 

E così lo cominci e non lo molli finché non finisce.

Il libro poi è Napoli con tutta la sua bellezza e tragicità: con i vicoli, il Vomero, il mare, la Camorra e la brava gente; con il Pipita che segna gol e, dopo aver letto il libro, ti spieghi un po’ meglio la disperazione dei tifosi per il suo passaggio alla Juve; con il caffè e la sua schiuma, che non se ne può fare a meno. 

Insomma, leggetelo, ne vale la pena.

La clausola della moralità 

No perché va bene tutto ma anche alla leeeeeennnnnnntttttttteeeeeezzzzzzaaaaaaaa c’è un cavolo di limite.Io non vi posso dire che Carol sia un brutto film.

Parliamo di una storia lesbo ante litteram, cioè in un periodo storico in cui magari non ti aspetti tanta libertà. 

Siamo a New York, negli anni 50; Carol, una donna mediamente matura, si innamora di lei che manco mi ricordo come si chiama tanto mi è rimasta impressa; lei è molto più giovane, fa la commessa, classe sociale più bassa di quella di Carol e così né carne né pesce: non sa né di me ne di te.

Comunque si conoscono, si innamorano da qui il disastro perché Carol è sposata ed ha una bambina.

Niente è brutto nel film.

Cate è la fine del mondo: bella, bellissima, elegante; perfetta nelle sue mise anni ’50. Vi dico nulla da eccepire. Brava, bravissima.

La giovane personalmente mi urtava, ma non posso dire che non fosse bella o magari anche brava.

Belle le case; la macchina (dove si svolge mezzo film); i vestiti; la neve. 

Una bellissima cartolina ma il film è di una lentezza imbarazzante! 

Troppo, troppo, troppo.

Un fastidio esagerato.

Come se stessero girando proprio un film degli anni ’50. Forse è proprio questo il segreto: ho visto un film degli anni ’50. Allora, in questo caso, il regista è stato bravissimo.

Peccato però che il 2016; forse si poteva fare qualcosa di più.

2 ultime cose:

1) hanno fumato un tale quantitativo di sigarette nel film che adesso non c’è permesso neanche pensarle;

2) la scena più bella è indubbiamente quella finale, ma non perché finisce il film, proprio perché trionfa l’amore ed io sono inguaribile romantica, si sa. E poi lei è così tremendamente bella che farebbe diventare lesbica chiunque. 

A meno che non abbiate taaaaaantooooo tempo da perdere io starei a casa fossi in voi! 

Fotografie

Perché perché perché sbattere quella foto del povero bimbo morto a Bodrum in ogni dove?

Perché perché perché mostrare quell’orrore? 

Perché perché perché?

Pensate forse che cambi qualcosa?

Io dico di no.

Non serve la foto di un Bimbo morto per cambiare le cose, purtroppo non serve e non basta.

Quando vedo quella foto penso al dramma di un padre, di una famiglia che ha dato peso zero alla propria vita, disposta a morire in mare pur di avere una speranza. 

Una sola speranza.

Se guardo quella foto penso al dramma di un padre che ha perso moglie e di figli per essersi preso la responsabilità di regalare loro una vita diversa. 

Se guardo quella foto penso a quanto sia inutile guardarla.

Quella foto non dobbiamo guardarla noi, dovrebbero guardarla i governi, quelli conniventi con questo genocidio.

E non serve comunque una foto a cambiare le cose.

Non serve una foto.

Basterebbe costringerli a passare un giorno sul molo di Lampedusa o in un campo profughi.

Basterebbe ragionare. 

Pensare. 

Concentrarsi per trovare una soluzione, insieme che da soli é evidente non ci si riesce.

Se guardo quella foto penso ad una vita ancora non nata e già spezzata.

Se guardo quella foto penso a quanto siamo fortunati noi e i nostri figli e a quanto stiamo sempre a lamentarci.

Se guardo quella foto penso ad un sorriso che non ci sarà mai più.

Se guardo quella foto penso a quanto sia inutile guardarla. 

Basta poco, che c’ vo’?!

Parto con una confessione: a me Conchita De Gregorio sta antipatica.

Ecco.

E’ per questo che, a parte il titolo (Mi sa che fuori è primavera), ero scettica quando una mia amica me lo ha prestato per leggerlo.

Succedeva ieri, ore ve ne sto scrivendo: indi, per cui, poscia, direi che quanto meno mi ha coinvolta.

Come al solito ho aperto il libro senza sapere cosa stessi leggendo e a pagina 2 ho capito che non trattavasi di semplice storia d’amore o simili perché si accenna ad un dramma che ti spinge ad andare avanti.

E così ti ritrovi in una storia di cronaca di qualche anno fa.

Me la ricordavo benissimo: un papà svizzero del cantone tedesco (Matthias) che prende le sue due gemelle (Alessia e Livia) e sparisce con loro, salvo poi buttarsi sotto un treno a Foggia senza lasciar detto nulla sulle bambine. Puff, sparite nel nulla!

Qui la De Gregorio si fa raccontare la storia dalla mamma delle bimbe (Irina). E’ un racconto “felice” tutto sommato, nel senso che Irina parte dalla fine, da oggi, dalla ritrovata felicità con Luis in Spagna e, a ritroso, racconta la sua vita con Matthias, con le bimbe, la scomparsa, la disperazione.

Ben scritto, ben articolato, con una struttura interessane. Irina scrive una serie di lettere: alla baby sitter, al PM, al Giudice, al fratello, alla nonna. Lettere che la aiutano a ricostruire, a fare il punto della situazione, a mostrarci quanto lacunosa sia stata l’indagine; quanto la ricca Svizzera l’abbia trattata da ignorante italiana. Lei, colta e affermata donna d’affari, trattata come l’ultima degli emigranti.

Non è stata considerata da nessuno questa donna che ha perso, senza sapere che fine abbiano fatto, le proprie bambine; che ha vissuto con un pazzo che le riempiva la casa di post it indicandole tutto quello che doveva fare, addirittura come e in che ordine vestire le bambine.

Povera donna: due gemelle, scomparse a 6 anni e non avere più alcuna notizia di loro.

Eppure, reagisce, lotta e si innamora, è felice di nuovo perché “per essere felici non ci vuole tanto. Per essere felici non ci vuole quasi niente. Niente, comunque, che non sia già dentro di noi”.

Bene, segnatevelo, che potrebbe tornarvi utile.

Se il tempo fosse un gambero…

Chissà perché io non ho letto questo libro prima; chissà perché me lo sono fatto sfuggire quanto era un best seller, fatto sta che l’ho letto ora e mi è piaciuto assai.
Molto forte, incredibilmente vicino è la storia di un bimbo che perde il papà l’11 settembre nell’attacco alle twins tower ma non è tanto importante come il papà muore quanto il rapporto che c’era tra i due e l’amore che viene fuori ad ogni pagina.
Per lo più il bambino narra in prima persona salvo poi delle incursioni dei nonni che parallelamente raccontano la loro storia: sotto gli attacchi aerei a Dresda nella seconda guerra mondiale. Anche se potrebbe sembrare un po’ troppo politicamente corretto; un po’ troppo filo americano il libro racconta solo l’amore: quello di un figlio verso un padre; di un nonno verso il figlio; di una nonna verso un figlio/nipote/ marito insomma un circolo vizioso di sentimenti viscerali raccontato con maestria.
Ti innamori subito di questo bimbo che ha 7 anni, si veste solo di bianco, scrive lettere all’universo mondo; cerca di sfuggire al senso di colpa di non aver parlato con il papà prima che morisse. Un bimbo problematico, particolare, sui generis: un bimbo geniale.
Ed intorno a lui: una mamma distrutta dal dolore di aver perso il marito; una nonna che ne ha vissute di ogni; un nonno che va e viene; ma soprattutto un papà che non c’è più ma che è e sarà molto forte, incredibilmente vicino sempre!
E non puoi non commuoverti, non puoi non pensare a come sarebbe andata se si vivesse al contrario in modo da “essere tutti salvi”.

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